Presente e futuro delle Risorse umane tra miti, riti e dilemmi
Dialogando con Giorgio Pivetta su “Risorse (molto) umane. Miti, riti e dilemmi in un viaggio tra passato e futuro”, Guerini 2023
Ho avuto l’onore e il piacere, grazie a Niuko e ad AIDP Veneto e Friuli Venezia Giulia, di dialogare con Giorgio Pivetta, autore di un libro che ho letto con grande interesse da appassionato di sviluppo organizzativo e di processi HR.
Ho trovato questo lavoro interessante per almeno tre motivi: innanzitutto, pur essendo scritto da una persona che fa un bilancio di una carriera nell’ambito delle risorse umane, non indulge a una dimensione che potremmo definire “memorialistica”. È un libro in altre parole coniugato al presente e soprattutto al futuro, perché intercetta i temi che riguardano l’evoluzione del ruolo risorse umane nei prossimi anni.
Un altro punto di forza di questo libro è che bilancia lo sguardo “in soggettiva” di chi ha un’esperienza concreta nelle organizzazioni con una frequentazione ampia e multidisciplinare di una ricca letteratura, allargando lo sguardo non solo ai paradigmi manageriali e organizzativi, ma anche alla conoscenza economica, psicologica e sociologica.
Un terzo aspetto che ho trovato intrigante, anche in termini di piacevolezza della lettura, è il fatto che Pivetta affronta temi rilevanti per la famiglia professionale HR a partire (come recita il sottotitolo) dai miti e dai riti. Con uno sguardo disincantato l’autore passa in rassegna gli assunti dati spesso troppo sbrigativamente per scontati (ad esempio il mito dell’efficacia degli MBO). Con tono a volte ironico si sofferma inoltre su certe liturgie organizzative: “riti” come talent review, stesura di organigrammi e job description vengono messi a nudo per svelarne sia l’efficacia sostanziale, sia la dimensione per l’appunto “rituale”, qualche volta acriticamente imitativa di iniziative nate altrove, o ancora la valenza micropolitica. Infine i dilemmi: “mi piace usare il significato più estensivo di questa parola, ovvero la necessità di scelta di una tra due soluzioni tra loro contrastanti”. Trovo che questa modalità di esposizione sia un accorgimento euristico che invita a riflettere quanto meno in termini di “trade off”, ad esempio “la cultura divide o include?”.
Un filo conduttore che percorre una buona parte di questo testo riguarda infatti la dimensione del senso e del significato del lavoro, sia esso in fabbrica, in ufficio o nei contesti “diffusi” del lavoro ibrido. In un passaggio che potremmo riformulare nella sequenza di focus sulla manodopera, sulla “mentedopera” fino all’attuale reclutamento di dimensioni sempre più profonde della vita delle donne e degli uomini “al lavoro”: i valori, la passione e la creatività, con un indebolimento dei confini in termini di spazi, tempi e pensiero tra la dimensione personale e professionale.
La dimensione longitudinale dell’esperienza sul campo dell’autore gli permette di iniziare il percorso con una disamina dei grandi cambiamenti che hanno attraversato il mondo negli ultimi decenni traguardati in modo interessante attraverso l’impatto che hanno sulle organizzazioni e sui contenuti del lavoro: vengono affrontati, con numeri e fatti, fenomeni come la globalizzazione, le diseguaglianze, la trasformazione del lavoro e delle fabbriche, la sostenibilità.
In questa cornice viene affrontata anche l’evoluzione del contratto psicologico tra individuo e organizzazione nelle dimensioni dello spazio, del tempo e della dimensione personale rispetto al ruolo.
“Dal lavoro come puro scambio transazionale a quello come fonte di motivazione e realizzazione a quello di una parte del progetto di vita individuale: un percorso lungo un secolo che negli ultimi anni ha accelerato in modo impressionante. ”
Un secondo filo conduttore che attraversa il testo sia nell’analisi sull’attuale, sia nella proiezione verso il futuro riguarda la dimensione organizzativa. Il messaggio che pare di cogliere è che l’HR può non essere sempre centrale nelle decisioni strutturali sull’organizzazione (appannaggio in molti casi di figure e imprenditoriali o dei CEO) ma è chiamato a contribuire a dare una forma all’organizzazione, anche in termini di pensiero organizzativo e di comprensione del rapporto tra modelli e fisionomia concreta dell’azienda nella quale opera. Aggiunge l’autore:
“Non vorrei essere tranchant, ma penso che un’intera generazione di professionisti del mondo delle Risorse umane abbia sottovalutato il peso di questa componente, ora penalizzandola, ora delegandone la progettazione all’esterno”.
Una parte di grande valore di questo lavoro si assume il compito di spiegare la rilevanza crescente del saper “fare organizzazione”, in tempi in cui è sempre più rischioso ispirarsi per riflesso condizionato a modelli organizzativi novecenteschi o abbracciare derive di presunto assorbimento della complessità basate su una caparbia intensificazione dei processi di controllo. Anche in quest’ambito vi sono idee controintuitive e “ispirative”.
L’importanza dell’attenzione alla dimensione formale e informale dell’organizzazione è un messaggio che si salda con il terzo punto prospettico dal quale Pivetta osserva il mestiere e la professionalità del mondo HR, ovvero la rilevanza della comprensione e dell’intervento sulla dimensione culturale. Il concetto di cultura organizzativa viene maneggiato con la concretezza di un HR che si ispira ai grandi autori (il compianto “decano” Schein in primis) e sa declinare questo costrutto in modo chiaro, alla luce della sua esperienza, in termini di leggibilità, efficacia e (aggiungerei) inevitabilità. In altri termini, la cultura (come l’ossigeno) c’è, è riconoscibile attraverso indizi e riferimenti specifici, interviene pesantemente (subita o gestita come risorsa) soprattutto nelle discontinuità della vita dell’impresa. L’autore cita ad esempio i processi di acquisizione o il periodo del Covid 19, ma aggiungerei a questi, in una prospettiva nordestina, i processi di avvicendamento generazionale o di managerializzazione di imprese a forte impronta familiare.
Ancora, in una coniugazione tra il presente e il futuro, il fattore culturale viene integrato con i grandi temi che sotto varie parole (purpose, senso di appartenenza, engagement, solo per citarne alcune) vanno a definire l’ancoraggio di senso che diventa fondamentale nel vivere quotidianamente l’organizzazione. Qui l’autore indica tre modalità che permettono di presidiare concretamente il fattore culturale facendone un elemento di consapevolezza, di “esplicitazione” e infine una leva manageriale concreta che contribuisce a costruire “l’in-comune” di cui parla Giuseppe Varchetta.
Un ultimo terreno di analisi, che merita a maggior ragione una lettura diretta e che qui si può solo tratteggiare, riguarda le riflessioni sul futuro delle Risorse umane. Gli ingredienti che vengono integrati in questa rappresentazione c’entrano ad esempio con la produzione e l’assorbimento della conoscenza, con il ruolo gigantesco e pervasivo delle tecnologie, con un’assunzione di responsabilità più ampia rispetto alle (sia pure importanti) dimensioni procedurali e di processo verso un HR “capace di guidare le persone nella sfida del cambiamento”. In questi non facili attraversamenti, la sensibilità per la dimensione simbolica, per la soggettività e per l’unicità delle persone sembrano essere ulteriori premesse per l’efficacia e la “rotondità” di una professione che promette di diventare sempre più interessante. Forme, queste, di intelligenza (molto) naturale.